La società dell’informazione è la società in cui viviamo. Una società fortemente caratterizzata dalla grande disponibilità di informazione, proveniente dalle più diverse fonti e da ogni parte del mondo a grande velocità. Una quantità di informazione mai vista prima nella storia dell’umanità. Una quantità di informazione tale da impedirne una adeguata ricezione e gestione e da esporci ad alcuni rischi, come dicevamo nell’articolo Community in rete: alcuni rischi.

Il diritto alla privacy (ossia alla riservatezza) è molto sentito nella nostra società. Spesso però si scontra con altri diritti, come il diritto all’informazione o con altre questioni come libertà e sicurezza, costituendo una delle grandi contraddizioni dell’epoca in cui viviamo:

  • teniamo moltissimo alla nostra libertà, per cui non ci piace essere tenuti sotto controllo
  • teniamo moltissimo alla sicurezza, ma spesso proprio in nome della sicurezza (o della percezione di sicurezza) sacrifichiamo la nostra libertà.

I rischi per la nostra privacy.

Ogni giorno la nostra privacy è messa a rischio, basta pensare che ad esempio:

  • tutte le volte che ci colleghiamo a Internet (aldilà delle tracce che lasciamo sul nostro computer o smartphone) il nostro provider (fornitore di accesso alla rete) memorizza tutti i siti che visitiamo, tutte le immagini e i video che vediamo
  • tutte le volte che prendiamo l’autostrada il Telepass rileva dove siamo entrati, dove siamo usciti, quanto tempo ci abbiamo messo
  • tutte le volte che preleviamo ad un ATM con il bancomat, oltre a sapere quanti soldi abbiamo preso, la banca conosce anche dove ci troviamo precisamente in quel momento
  • tutte le volte che paghiamo con una carta viene registrato dove eravamo, quanto abbiamo speso, cosa abbiamo comprato; aggregando i dati è possibile conoscere tutto di noi: come è composta la nostra famiglia, le abitudini alimentari, le preferenze di acquisto, quanti soldi spendiamo ecc.
  • tutte le volte che usiamo lo smartphone per telefonare (e non solo) si sa dove eravamo, con chi abbiamo parlato e per quanto tempo; i dati aggregati permettono anche di dire se e chi c’era nelle nostre vicinanze
  • tutte le volte che usiamo il navigatore si sa esattamente dove eravamo, dove siamo andati, quanto ci abbiamo messo
  • tutte le volte che guardiamo la televisione on demand (come Netflix) si sa cosa e quando abbiamo guardato e anche questo contribuisce a stilare il nostro “profilo”
  • tutte le volte che camminiamo per strada siamo ripresi dalle numerosissime telecamere di sicurezza (ci sono città, come Londra, che ne hanno installate veramente tante)

La normativa vigente.

La normativa ad oggi in vigore in Italia è il D.Lgs. 101/2018, che fa riferimento al GDPR europeo (679/2016). Come le precedenti D.Lgs. 196/2003 e L. 675/96 i cardini della normativa puntano sull’informazione (prima di trattare i dati di qualcuno è indispensabile informarlo) e sul consenso (prima di poter usare i dati di qualcuno, almeno per determinate finalità, è indispensabile riceverne e gestirne il consenso).

Il consenso, ma è più corretto dire “i consensi” devono essere distinti per finalità e l’interessato, i cui dati vengono trattati, ha il diritto di revocare uno o più fra i consensi dati.

Male o bene?

Tutto ciò premesso, va anche considerato che tutti questi dati, dopo averli

  • anonimizzati (ossia una volta tolti i riferimenti che permettono di identificare una persona) e
  • clusterizzati (aggregati in insiemi con caratteristiche similari)

costituiscono un immenso patrimonio di conoscenza, come mai nella storia dell’uomo si è verificato. E questo patrimonio, ben impiegato, deve portare ad uno sviluppo in termini di qualità della vita, di salute delle popolazioni, di progresso in genere.

Purtroppo come spesso accade nel rapporto fra “mondo della scienza” e “grande pubblico” le tecnologie si sono diffuse senza un “manuale di istruzioni” tale da illustrarne le vere potenzialità.

Così, probabilmente senza apprezzarne i pregi, è più che normale scorgerne i difetti (dal punto di vista dell’utente finale): quelli del retargeting (per cui un prodotto visualizzato una volta ci riappare ovunque), o la data retention operata dallo Stato (per cui i metadati di tutte le comunicazioni sono conservati per un periodo da 6 mesi a 2 anni), o tutte le altre situazioni che, almeno per chi ha qualche anno e si ricorda com’era prima, percepiamo come limitazioni alla nostra libertà e alla nostra privacy.

 

Bibliografia: Rossignoli, N., Appunti di cultura digitale, Lampidistampa, Milano, 2008

Immagine: Photo by Scott Webb from Pexels